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Waterloo, il giorno dopo

  • Immagine del redattore: magnarini
    magnarini
  • 2 ago 2018
  • Tempo di lettura: 6 min

Riporto di seguito un capitolo del bellissimo libro di Alessandro Barbero sulla battaglia di Waterloo. È la descrizione del giorno dopo la battaglia. Troppe volte immaginiamo le battaglie in maniera distaccata e asettica. La descrizione che segue ci riporta alla realtà della guerra e a tutto il suo orrore.


Alle prime luci dell'alba il campo di Waterloo offriva uno spettacolo spaventoso, a cui non era possibile sfuggire neanche avvolgendosi nella coperta e chiudendo gli occhi, perché l'aria era piena di rumori ancora più atroci. Gli spari dei soldati che finivano a pistolettate i cavalli agonizzanti e le martellate dei maniscalchi che recuperavano i ferri dai cavalli morti si sovrapponevano alle urla in tutte le lingue dei feriti che morivano di disidratazione, implorando un po' d'acqua, coi corpi già lividi e gonfi come cadaveri.

Ma per quanto orrido lo spettacolo, c'erano già i primi amatori venuti apposta da Bruxelles per vederlo, magari senza immaginare ciò che avrebbero trovato. Il capitano Mercer vide scendere da una carrozza un signore elegantemente vestito, col cappello a cilindro, che si premeva contro il naso un fazzoletto bianco profumato. "Si muoveva con cautela cercando di non calpestare i corpi (ai quali lanciava occhiate spaventate en passant), per evitare di macchiare le brillanti calze di seta che coprivano le sue estremità inferiori. Tutto quello che indossava era pulito e alla moda, come se fosse appena uscito dal negozio; e non smetteva mai di applicarsi il fazzoletto al naso".


Anche molti ufficiali si erano trasformati in turisti, desiderosi di imprimersi nella memoria quello spettacolo irripetibile. Il capitano Pattison trascorse la mattina aggirandosi per il campo di battaglia, pieno di compassione per la sorte degli uomini e soprattutto dei cavalli che giacevano ovunque uccisi o feriti. Il cadavere di un artigliere francese attrasse la sua attenzione. "Era stato messo a sedere con la schiena appoggiata alla ruota di un avantreno sfasciato, e aveva un'espressione così vivace che bisognava esaminarlo da vicino per accorgersi che la scintilla vitale l'aveva lasciato. Lo shakò gli era caduto dalla testa e giaceva accanto a lui, lasciando la faccia completamente visibile. I suoi occhi azzurri sembravano fissi su di me, e continuavano ad avere anche nella morte un'espressione viva. Il braccio destro era levato come in un gesto di grande agitazione, e per un istante lo immaginai ancora vivo, nell'atto di esclamare con entusiasmo 'Vive l'Empereur!'".


Ma non tutti gli ufficiali che percorrevano il campo di battaglia erano spinti dalla curiosità. Molti reggimenti avevano mandato fuori delle pattuglie per raccogliere i propri feriti e seppellire i morti. Il maggiore Harry Smith, al comando di una di queste squadre, aveva già visto molte battaglie ma nessuna così devastante. "A Waterloo l'intero campo da destra a sinistra era una massa di corpi morti. In un punto, alla destra della Haye Sainte, i corazzieri francesi erano letteralmente ammucchiati uno sull'altro". Il maggiore si ricordò che la battaglia era stata combattuta di domenica, e recitò silenziosamente il salmo 91: "Mille cadranno accanto a te, e diecimila alla tua destra, ma tu non sarai toccato".

Non lontano dalla strada maestra gli ufficiali del 95° Fucilieri fecero scavare una fossa comune e vi seppellirono i caduti del loro reggimento, facilmente riconoscibili grazie alle divise verdi; tutt'intorno echeggiavano gli spari isolati delle pattuglie prussiane, che finivano i feriti troppo gravi per essere trasportati, compresi i loro.

Entrambi gli eserciti sgombrarono la zona molto prima di aver completato il seppellimento dei morti, che richiese in tutto dieci o dodici giorni; l'orrendo lavoro venne lasciato ai contadini del posto. I cadaveri erano raccolti e trasportati coi carri alle fosse comuni, grandi buchi quadrati profondi un paio di metri; in ognuna si scaricavano alla rinfusa trenta o quaranta cadaveri, completamente nudi, perché per i contadini più poveri anche un paio di scarpe sfondate o una giubba stracciata avevano pur sempre un valore. Un testimone racconta di aver visto scavare una di queste fosse: "I contadini stavano spogliando i cadaveri prima di buttarli dentro, e alcuni ebrei russi partecipavano alla spoliazione dei morti strappandogli i denti d'oro, un'operazione che compivano con la più brutale indifferenza. Le martellate di questi sciagurati mi risuonavano orrendamente nelle orecchie, mescolate alle pistolettate dei belgi che stavano uccidendo i cavalli feriti". Le carogne dei cavalli vennero ammassate e bruciate; almeno un testimone afferma di aver visto fare la stessa cosa con i cadaveri dei francesi, e del resto una stampa uscita a Londra nel 1817 mostra i contadini impegnati ad accumulare legna sotto un mucchio di cadaveri nudi, nel cortile di Hougoumont.


La mattina del 19 anche il capitano Mercer era stato in quel cortile, e quel che racconta lascia pochi dubbi sul tipo di trattamento riservato ai cadaveri, soprattutto a quello degli sconfitti. In mezzo ai corpi gonfi e anneriti degli uomini che erano morti bruciati nell'incendio si affaccendavano contadini del posto e soldati tedeschi, senza preoccuparsi affatto dei "molti poveri diavoli ancora vivi, che stavano lì seduti e cercavano di bendare le loro ferite". Mercer stava parlando con un dragone tedesco "quando due contadini, dopo aver vuotato le tasche di un francese morto, sollevarono il cadavere per le spalle e lo buttarono a terra con tutte le forze, profferendo le ingiurie più grossolane, e prendendolo a calci in testa e in faccia. Lo spettacolo rivoltante era senza dubbio destinato a farci piacere, ma ebbe l'effetto contrario, come scoprirono molto presto. Mi ero appena lasciato sfuggire un'espressione di disgusto, quando la sciabola del dragone brillò sopra la testa dei due furfanti, e si abbattè così vigorosamente sulle loro schiene e le loro spalle che si misero a urlare e scapparono".


Quanto ai feriti, erano davvero dei poveri diavoli. Durante la notte molti erano stati calpestati dai cavalli impazziti che scorrazzavano sul campo, scalciando tutto quello che incontravano, oppure schiacciati dai carriaggi dell'artiglieria. Il capitano Ingilby era sicuro che solo l'artiglieria francese poteva essere così disumana da passare sui corpi dei feriti, ma il suo resoconto lascia comunque capire che il pericolo era onnipresente. "Era quasi impossibile non passare coi cannoni sui cadaveri di entrambi gli eserciti che riempivano il terreno; e quando, durante la notte, venni mandato a prendere certi vagoni di munizioni, abbiamo fatto fatica a non stritolare molti dei feriti sulla strada presso la Haye Sainte, che s'erano trascinati fin lì nella speranza di trovare aiuto. Ce n'erano alcuni, ancora vivi, che dovevano essere stati schiacciati dall'artiglieria francese durante la sua ritirata".


Altri erano morti per lo shock e la perdita di sangue, o sotto il coltello dei saccheggiatori; anche durante il giorno, del resto, quelli che non erano in grado di muoversi non erano affatto al sicuro dai ladri: il capitano Tomkinson allontanò a piattonate un contadino sorpreso a sfilare gli stivali a un soldato inglese ancora vivo.

Anche quando non erano abbandonati sul campo di battaglia, il destino dei feriti era poco invidiabile. Il soldato Hechel, ferito al ventre nel combattimento per Smohain, venne portato dai compagni fino a un posto di medicazione; ma il chirurgo, dopo averlo appena guardato, rifiutò di occuparsene: "Buttatelo lì, non ne ha per più di due ore". Prima che i camerati lo lasciassero, Hechel regalò loro il suo orologio, "che mi era costato trenta franchi. Se ci avessi pensato, gli avrei regalato anche i cinque talleri che avevo cucito nella fodera della giacca due anni prima, quando avevo dovuto lasciare la mia cara patria, e che non avevo mai toccato da allora". La stanza in cui giaceva Hechel insieme a molti altri feriti era adiacente a una stalla, e piena di brocche di latte; i feriti soffrivano la sete, ma il contadino non voleva sprecare il suo latte per loro. Alla fine portò un pentolone d'acqua e lo lasciò in mezzo alla stanza, e Hechel bevve tanto da sentirsi male, finché l'acqua non cominciò a uscirgli dalla ferita. Sarebbe rimasto lì per tre giorni, senza cure né nutrimento, mentre gli altri feriti intorno a lui morivano uno dopo l'altro; alla fine, i pochi sopravvissuti pregavano Dio perché mettesse fine alle loro sofferenze. "Ma il Signore dice: i miei pensieri non sono i vostri pensieri". Il terzo giorno i superstiti vennero caricati su una carretta e portati in ospedale a Bruxelles, fra sofferenze spaventevoli quando la carretta sobbalzava sul pavé.


Quell'ospedale, dove già erano ricoverati i feriti di Quatre Bras, era diventato un girone infernale. Il fuciliere Costello ci incontrò un ragazzo tedesco non ancora ventenne, reclutato come conducente d'artiglieria. Aveva perso tutte e due le gambe per una palla di cannone; mentre era a terra un corazziere gli aveva fracassato un braccio con una sciabolata, e una pallottola vagante lo aveva ferito all'altro braccio. In ospedale, i chirurghi erano stati costretti ad amputargli entrambe le braccia, uno sopra il gomito e l'altro sotto: "giaceva lì, un tronco senza rami, e fino al momento in cui me ne sono andato, mentre molti morivano per ferite meno gravi, lui era ancora vivo".

Il ricovero in ospedale non aumentava granché la probabilità di cavarsela; innumerevoli feriti morivano per la peritonite, la cancrena e la perdita di sangue, aggravata dai salassi che insieme alle amputazioni costituivano la principale cura praticata dai chirurghi. Le statistiche dimostrano che i feriti continuarono a morire per mesi, addirittura fino a tutto il 1816, e che alla fine il numero dei morti risultò aumentato di almeno il cinquanta per cento rispetto a quello calcolato all'indomani della battaglia.

 
 
 

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