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Tornare a casa dopo l'orrore del lager

  • Immagine del redattore: magnarini
    magnarini
  • 23 gen 2018
  • Tempo di lettura: 2 min

Primo Levi ne "La tregua" racconta il suo avventuroso ritorno a casa dopo la liberazione dal lager. Un'odissea attraverso un'Europa devastata dalla guerra, incontrando personaggi di ogni genere. Una lettura che consiglio a tutti.

Qui di seguito riporto la parte finale, che trovo sempre commovente ogni volta che la leggo. Perchè non c'è nessun posto come casa.

E' il mio modesto contributo alla settimana della memoria.


Giunsi a Torino il 19 di ottobre, dopo 35 giorni di viaggio: la casa era in piedi, tutti i familiari vivi, nessuno mi aspettava. Ero gonfio, barbuto e lacero, e stentai a farmi riconoscere. Ritrovai gli amici pieni di vita, il calore della mensa sicura, la concretezza del lavoro quotidiano, la gioia liberatrice del raccontare. Ritrovai un letto largo e pulito, che a sera (attimo di terrore) cedette morbido sotto il mio peso. Ma solo dopo molti mesi svanì in me l’abitudine di camminare con lo sguardo fisso al suolo, come per cercarvi qualcosa da mangiare o da intascare presto e vendere per pane; e non ha cessato di visitarmi, ad intervalli ora fitti, ora radi, un sogno pieno di spavento.


È un sogno entro un altro sogno, vario nei particolari, unico nella sostanza. Sono a tavola con la famiglia, o con amici, o al lavoro, o in una campagna verde: in un ambiente insomma placido e disteso, apparentemente privo di tensione e di pena; eppure provo un’angoscia sottile e profonda, la sensazione definita di una minaccia che incombe. E infatti, al procedere del sogno, a poco a poco o brutalmente, ogni volta in modo diverso, tutto cade e si disfa intorno a me, lo scenario, le pareti, le persone, e l’angoscia si fa più intensa e più precisa. Tutto è ora volto in caos: sono solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so che cosa questo significa, ed anche so di averlo sempre saputo: sono di nuovo in Lager, e nulla era vero all’infuori del Lager. Il resto era breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa. Ora questo sogno interno, il sogno di pace, è finito, e nel sogno esterno, che prosegue gelido, odo risuonare una voce, ben nota; una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. È il comando dell’alba di Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa: Alzarsi, “Wstawac”.

 
 
 

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