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Le nefaste conseguenze della dominazione spagnola in Italia

  • Immagine del redattore: magnarini
    magnarini
  • 2 gen 2018
  • Tempo di lettura: 10 min

Col passaggio sotto la dominazione spagnola (dal 1559 al 1713), inizia per l'Italia un lungo periodo di decadenza. Questo post è tratto da "L'Italia del Seicento" di Indro Montanelli e Roberto Gervaso. Chiarisce molto bene i motivi della superiorità economica e politica degli Stati protestanti rispetto a quelli cattolici. Tale condizione ha purtroppo riflessi che scontiamo ancora ai giorni nostri

Come se avessero intuito a che sorte si avviava­no, alla fine del Cinquecento gl'italiani si vesti­rono a lutto. Un tempo variopinti e sgargianti, i corpetti, i pantaloni, le cappe, le calze, le scarpe si tinsero di nero, secondo il funebre e solenne modello dettato da Madrid. I Viceré spagnoli e i tribunali dell'Inquisizione non tolleravano in­frazioni, neanche negli abiti, all'austerità contro­riformista. Il loro ideale di vita era un ideale di morte. Esso stese un sudario di silenzio e di con­formismo su un Paese che per quasi tre secoli aveva assordato e abbagliato il mondo con le sue disordinate lotte, con le sue furibonde rivalità, coi suoi forsennati individualismi, col suo slancio industriale, con la sua inventiva artistica, con una spregiudicatezza intellettuale spinta fino al­ cinismo. Stato contro Stato, città contro città, quartiere contro quartiere, uomo contro uomo, l'Italia aveva sfrenato le sue energie competitive che avevano toccato insieme i vertici del sublime e dell'abbietto. Che cosa, ora, la riduceva a ci­mitero proprio nel momento in cui un fremito di nuova vita percorreva tutta l'Europa?


Abbandonando l'astratto piano dottrinario, ri­portiamo la contrapposizione sul piano concreto dei fatti. Perché da essa prende avvio il solco de­stinato a dividere in maniera irreparabile e drammatica i due Occidenti, quello cattolico e quello riformato, e a fare del secondo, a danno del primo, il protagonista della storia moderna.

Personalmente, Calvino non era né un liberale né un democratico; era anzi un intollerante asso­lutista, che trattava i propri eretici come l'In­quisizione trattava i suoi: bruciandoli. Ma ciò che conta non è la persona, sibbene il magistero di Calvino. Esso fa piazza pulita di tutte le auto­rità. Non riconosce nemmeno quella del sacerdo­te perché dice al fedele: "Il tuo sacerdote sei tu. Sei tu che devi leggere la Bibbia. Sei tu che devi interpretarla. Sei tu che rispondi direttamente a Dio del modo in cui ne osservi o ne trasgredisci il precetto. Non preoccuparti della tua sorte ul­tra terrena: essa è già stata regolata dal Signore. Tu non saprai mai se Egli ti riserba la Grazia o la dannazione, né puoi influire sul Suo verdetto. È inutile quindi che ti isoli dal mondo e ti dia a una vita di contemplazione e di preghiera. La tua preghiera sia il compimento del tuo dovere. E il tuo dovere è di lavorare e di produrre. Più ci riuscirai, e più vorrà dire che godi del favore divino".


Il lettore italiano, da secoli abituato a disso­ciare la propria condotta pratica dalla regola re­ligiosa, probabilmente si rifiuterà di credere che questo insegnamento possa aver influito sul co­stume, sulla mentalità, sul comportamento di chi lo adottava. Ma dimentica che appunto per guadagnarsi il diritto di adottarlo e di praticarlo i suoi conversi sfidarono la scomunica, affronta­rono la persecuzione e il massacro, morirono a migliaia e a centinaia di migliaia. Evidentemen­te credevano in quei principi e si sentivano impegnati a uniformarvi la loro vita. Essa ne fu quindi rimodellata. Ed ecco quali ne furono i pratici riflessi.

Anzitutto, il calvinista scopre la libertà e le dà un fondamento religioso. I polemisti cattolici lo negano dicendo che nessun uomo è più schiavo di lui, visto ch'è soggetto a una sorte prefabbri­cata su cui egli non può influire nemmeno con una condotta di santità e di rinunzia. Ma questo riguarda solo il suo destino ultraterreno. Sul pia­no dei rapporti umani - l'unico che c'interessa in questo libro di storia, e non di teologia -, il calvi­nista è libero perché non riconosce più nessuna autorità esterna, nemmeno quella del sacerdote in quanto egli stesso è il proprio sacerdote. E cos’altro è la libertà, se non questo? Noi cattolici, che della libertà non abbiamo il senso religioso, crediamo ch'essa consista nel fare ciò che detta la legge, cioè qualcosa che sta al di fuori di noi, un'autorità che si può anche raggirare. I calvinisti sanno ch'essa consiste nel fare ciò che detta la coscienza. Dio, secondo loro, è lì, terribile Giudice che raggirare non si può. Egli li lascia liberi di compiere le loro scelte, ma li chiama a risponderne, ed essi si sentono impegnati solo di fronte a lui. È l'unica autorità che riconoscono, e sta dentro di loro, non di fuori. Ecco la libertà.


Seconda conseguenza: la democrazia. Calvino non ha delegato la ricerca della Verità a un sa­cerdote che la "riveli" ai fedeli dall'alto del suo pulpito. Questo compito lo affida ai fedeli stessi, cioè alla loro "congregazione". Il pastore che la riunisce è da essa "eletto", può esserne revocato, e i suoi poteri sono solo di consiglio e di assisten­za spirituale. Siccome passa la vita sulla Bibbia può fornire lumi sulla sua interpretazione, ma non può imporli. Il fedele deve cercare la Verità per conto suo, e non ci sono differenze sociali che tengano. Il contadino, l'artigiano, il capitalista e il nobile, seduti gomito a gomito sullo stesso ban­co, seguono lo stesso Libro, e sul senso da attri­buirgli il parere dell'uno vale esattamente quan­to quello degli altri, perché tutti sono sacerdoti, e ognuno lo è solo di se stesso. Gl'istituti demo­cratici nascono da questa parificazione di fronte a Dio. Essi non sono che il trasferimento sul pia­no politico di una concezione religiosa che esclude ogni autorità, se non quella conferita per ele­zione, cioè per delega. I calvinisti sono repubbli­cani, come dimostrano la Svizzera e l'Olanda. Il loro campione inglese, Cromwell, taglia la testa al Re. Nei loro Stati, il potere si accentra sempre di più nel Parlamento, che non è altro che una congregazione nazionale intesa agli affari civili. Esso è nato in chiesa: ecco la forza che gli ha consentito di resistere, fino al giorno d'oggi, a tutti gli assalti. Nei Paesi cattolici, che ne hanno fatto un istituto puramente giuridico e politico senza fondamento religioso, esso è sempre stato più o meno in crisi.


Terza conseguenza: il capitalismo. Calvino ha detto: "Più riuscirai a lavorare e a produrre, e più vorrà dire che godi del favore divino". Ma per produrre sempre di più, bisogna investire sempre di più. E per investire sempre di più, bi­sogna risparmiare sempre di più. Il calvinista è taccagno. Il denaro speso per scopi voluttuari è per lui una "colpa", di cui ha rimorso di fronte a se stesso e vergogna di fronte agli altri. Questa morale coinvolge tutto il costume, e lo rimodella. Vesti sobrie e di solide stoffe, che si rifiutano ai capricci della moda. Case comode, ma semplici, che assicurano il comfort (parola che nei Paesi cattolici non ha equivalente), ma escludono il lusso: niente saloni di rappresentanza, fastose gallerie, servitorame in livrea, teatrali scaloni, sciali di marmi, alberi genealogici coi loro rami protesi alla ricerca di un capostipite blasonato.

Niente barocco, insomma, coi suoi sfarzi decora­tivi. Il calvinista non tiene alle apparenze perché non tiene al rango sociale. Egli non mira a inse­rirsi nelle strutture della società feudale com­prando un titolo che gli permetta di scalarne il vertice. Mira a sovvertirla sostituendo a quelle tradizionali - aristocrazia e clero - una nuova classe, la borghesia, coi suoi nuovi valori: il lavo­ro, il denaro, il risparmio, la frugalità, l'austerità. Non potendo cercare la salvezza della propria anima in convento perché Calvino gli ha detto che la preghiera non serve a procurargliela e la vita contemplativa è una diserzione, egli trasfor­ma in conventi la propria casa e la propria bot­tega. Riposi se ne concede pochi. Oltre tutto, avendo abolito il culto dei Santi, gli vengono a mancare quelle festività che gremiscono il calen­dario del cattolico, il cui anno conta sessanta o settanta giornate lavorative meno del suo. Già questo basterebbe ad assicurare all'imprenditore olandese e svizzero un grosso vantaggio su quello italiano che fin qui aveva dominato l'economia europea. Ma ancora più determinante, a questi fini competitivi, è proprio l'impegno morale al continuo reinvestimento dei risparmi. Né l'Olan­da, coi suoi bassifondi continuamente invasi dal mare, né la Svizzera, con le sue inaccessibili montagne, possiedono risorse naturali e disponi­bilità di materie prime. Il loro "miracolo economico" che da questo momento prende avvio si basa dunque soltanto su questa concezione del lavoro come dovere assoluto e della ricchezza co­me fonte non di piacere, ma di altra ricchezza. È naturale che a questa scuola si formino dei finanzieri e dei capitani d'industria che in pochi anni sottraggono tutti i mercati ai rivali cattoli­ci intesi a investire i loro risparmi in blasoni, palazzi e altri articoli di lusso.


Quarta conseguenza: le lingue e gli Stati na­zionali. Siccome tutti hanno il dovere di leggere le Scritture, la prima impresa di luterani e calvi­nisti è la traduzione della Bibbia nelle varie lin­gue cosiddette "volgari". La Chiesa le aveva proibite. Essa non ammetteva che la versione in latino fatta da San Girolamo, in modo da la­sciame l'interpretazione in esclusiva al prete che il latino lo sapeva, mentre la massa dei parroc­chiani lo ignorava. Soprattutto su questo mono­polio si basava la pretesa della Chiesa a porsi come insostituibile mediatrice fra il fedele e Dio, come unica autorità qualificata a decifrare e spiegare il Verbo. I protestanti affidano questo compito allo stesso fedele, e siccome costui il la­tino non lo sa, gli mettono a disposizione la Bib­bia nella lingua ch'egli è abituato a parlare in modo che possa capirla e interpretarla da sé. Ol­tre ad essere un benservito al prete, in molti Paesi questa traduzione è anche il primo testo di lingua "scritta" che da esso prende appunto l’avvio. E la lingua è lo strumento con cui una Nazione acquista coscienza della propria indivi­dualità e si diversifica dalle altre. Lutero non è soltanto il padre della Riforma; ma con la sua traduzione della Bibbia lo è anche della lingua e della patria tedesca. Ora la via è libera alla co­stituzione degli Stati laici. Sia che nel corpo del­la stessa nazione se ne formino parecchi e che es­si assumano anche l'alta supervisione in materia spirituale come avviene nella Germania frantu­mata nei suoi Principati, sia che se ne costituisca uno solo che il potere spirituale lo lascia alle "congregazioni" e ai loro pastori come avviene nei Paesi calvinisti, il risultato non cambia: lo Stato si sottrae alla tutela della Chiesa, cioè raggiunge finalmente la sua sovranità.


Quinta e decisiva conseguenza: il nuovo asset­to culturale. La Riforma, dicevamo, obbliga il fe­dele a tuffarsi nella Bibbia, perché solo la Bibbia fornisce una bussola alla sua condotta. Per cer­carvela, egli deve dunque imparare a leggere. Ed è la fine dell'analfabetismo, in un'epoca in cui si calcola che il novanta o il novantacinque per cento degli europei siano afflitti da questa piaga. Il protestantesimo impegna tutti a combattere l'ignoranza come strumento del demonio non soltanto per sé, ma anche per gli altri. Una delle prime decisioni prese dai "padri pellegrini", appena sbar­cati in America, fu quella di fondare una scuola per sventare "la più perfida malizia del vecchio imbroglione Satana": tener gli uomini lontano dalle Scritture. Inteso unicamente al profitto come fonte di più massicci investimenti, l'im­prenditore calvinista aggioga i suoi operai ai lavori forzati e li spreme fino all'ultima goccia di sudore. Ma li manda a scuola, magari spingen­doceli a pedate, perché considera suo dovere sot­trarli alla perdizione. Il suo mecenatismo si sfo­ga solo in questo campo. Ma sortisce effetti scon­volgenti. La conversione all’alfabeto di sempre più vaste masse popolari crea, per tutte le atti­vità culturali, un "mercato" che le rimodella sulle sue esigenze. Il letterato protestante non scrive per il Signore. Scrive per il "pubblico", ora che grazie alla diffusione delle scuole se n'è formato uno in grado di leggere, e grazie alla diffusione del benessere in grado di comprare libri. Questo pubblico vuol ritrovare nelle sue pa­gine i propri problemi, interessi, aspirazioni, sen­timenti, e anche la propria lingua: quella che si parla nelle strade, nelle officine, nei campi. Ed ecco perché tutta la letteratura protestante ac­quista quello stile semplice e "parlato", quella concretezza, quella immediatezza, che la rendo­no ancor oggi così viva e attuale, così aderente alle cose, senza fronzoli né pennacchi. Lo si vede anche nella pittura. Quella fiamminga cerca la poesia nella riproduzione realistica della vita quotidiana, perché solo in questa si riconosce il suo acquirente, che non è né la Chiesa né il Si­gnore, ma l'anonimo imprenditore, il tecnico, il professionista. Costoro al pittore non chiedono un atto di cortigianeria, ma una trasfigurazione poe­tica del proprio mondo e ambiente.


Vediamo cosa succede invece in Italia. Molto più che il dominio spagnolo, è la Contro­riforma che la taglia fuori da questa colossale ri­voluzione. Ed è il fatto di esserne stata tagliata fuori che rende l'Italia così docile al giogo Spa­gnolo. L'italiano non vi si ribella perché non ha acquistato il senso religioso della libertà. Ogni tanto il suo malcontento esplode in qualche vio­lenza di piazza, o lo spinge a darsi alla macchia come brigante. Ma in queste disordinate reazioni manca un impegno di coscienza, ed è questo che le condanna alla sterilità.

I pochi istituti democratici ereditati dall'età dei Comuni cadono uno dopo l'altro. Avevano sempre avuto una vita precaria e tribolata per­ché non erano nati in chiesa, e quindi Papa e Spagna non fanno fatica a sbarazzarsene per re­staurare al loro posto il principio d'autorità, di cui entrambi sono i depositari. Il cattolicesimo non conosce "deleghe" dal basso, conosce solo “investiture" dall'alto. I due poteri, quello spiri­tuale e quello temporale, spesso litigano tra loro per le "precedenze", ma sono solidali nel negare all'uomo la qualità di cittadino e ribadirlo in quella di suddito. Si riforma la società del Me­dio Evo col suo "vertice" di aristocratici e prela­ti. Tutti i ceti intermedi in cui essa si era artico­lata si dissolvono in una massa amorfa, la plebe, che non è più protagonista di nulla e si difende solo con la disobbedienza.


Gli effetti sulla cultura sono immediati e esi­ziali. Nessuno dei due poteri ha interesse a che essa si diffonda. L'analfabeta è facile da governare, sia sul piano temporale che su quello spiri­tuale. Sia per parlare con Dio (Il quale, secondo la Chiesa, non parla che il latino), sia per parla­re col Governatore, l'analfabeta ha bisogno d'in­terpreti, alla cui autorità non gli resta che sotto­mettersi. Quindi, niente scuole, meno quelle adi­bite alla preparazione del personale di Chiesa e di Stato, cioè degli strumenti dell'autorità costi­tuita. E questo impedisce la formazione di un "mercato" culturale. Il pittore, per dipingere, deve aspettare l'ordinativo di un Papa che gli commissioni una Madonna, o di un Principe che lo incarichi di un ritratto. Sia l'uno che l'altro vogliono un'opera agiografica e laudativa. Den­tro questi limiti, il genio italiano seguiterà a da­re dei capolavori; ma sono limiti che alla lunga ridurranno l'arte ad accademia.


Ed è quanto avviene anche in letteratura. Lo scrittore italiano, di qualunque cosa scriva - poe­sia, saggistica, narrativa, storia -, lo fa pensando non al "pubblico" che, essendo analfabeta, non compra libri, ma al "potente", perché questo è il suo unico cliente. Lo si vede dal linguaggio: aulico, solenne, latineggiante, tutto riverenze, escla­mativi e piaggerie. Un linguaggio che non ha più nulla a che fare con la lingua parlata nelle case e nelle piazze, e che si avvia anch'esso a di­ventare accademia.

Ma il guasto non è soltanto di forma. Per pia­cere al potente, dalla cui borsa in esclusiva di­pende, l'uomo di cultura deve secondarne anche gl'interessi. E così egli diventa complice del po­tere e suo strumento. Mentre gl'intellettuali pro­testanti, che nel pubblico hanno trovato la loro clientela, ne diventano i direttori di coscienza e acquistano una funzione di guida e di avanguar­dia, i loro colleghi italiani fanno le sentinelle all'autorità costituita, e diventano sempre più pa­rassiti e cortigiani. Essi evadono tutti i grandi problemi politici, sociali, spirituali, perché in ognuno di essi l'autorità costituita avverte puzzo di sovversione. Si rifugiano nei formalismi e tec­nicismi del mestiere, si chiudono in circoli in cui ci si parla solo tra soci (non per nulla questo è il secolo delle Accademie), si danno a fabbricare "maniere", inventano l'Arcadia cioè l'evasione in sogni pastorali; e insieme col senso del "pub­blico servizio", perdono ogni contatto con la realtà. È una diserzione in massa, che peserà ter­ribilmente sulle sorti del nostro Paese, e vi fa tuttora sentire i suoi effetti.


Come si vede, l'Italia del Seicento aveva ra­gione di vestirsi a lutto. Nella scala dei valori ci­vili, in pochi decenni era passata dal primo all'ultimo posto d'Europa. E ci sarebbe rimasta per quasi tre secoli.

 
 
 

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