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Indro Montanelli racconta il dramma di una generazione

  • Immagine del redattore: magnarini
    magnarini
  • 11 apr 2018
  • Tempo di lettura: 7 min

Il 10 giugno del 1940 Mussolini annunciò l'entrata dell'Italia in guerra. Riporto qui la testimonianza di Indro Montanelli relativa a quel giorno. Non ha la pretesa di essere uno stato d'animo valido per tutti gli italiani. Ma è una testimonianza di cosa fu il fascismo per molti di quella generazione.


Il discorso con cui Mussolini annunciò dal balcone di Palazzo Venezia l'intervento dell'Italia nella seconda guerra mondiale fu uno dei più brutti ch'egli abbia pronunciato. Tutto vi suonava falso, toni di sfida e accenti eroici. Ma non meno false furono le ovazioni che la piazza gli rimandò. Non perché la gente avesse qualche presagio della tragedia che incombeva: tutti o quasi tutti erano convinti che il Duce stesse dichiarando una guerra che l'Italia non avrebbe fatta perché la Germania l'aveva già vinta. Ma tutti anche erano stanchi di quelle liturgie «Oceaniche». Non erano trascorsi che cinque anni da quando il Duce aveva annunziato l'impresa d'Abissinia, e quattro da quando, sempre dallo stesso balcone, aveva proclamato «il ritorno delle aquile imperiali sui colli fatali di Roma»; ma sembrava che ne fossero passati quaranta, tanto grande e diffusa era l'apatia subentrata alla tensione e alla passione di allora.

Da poco rientrato dalle campagne di Polonia, di Finlandia e di Norvegia, chi scrive si aggirava per le strade della Capitale, quasi incredulo della spensieratezza con cui il Paese si avviava a una guerra di cui avevo assaggiato gli orrori. (...)


Non ci furono domande di arruolamento volontario, come per l'Etiopia, o ce ne furono pochissime, e le cartoline-precetto vennero accolte con fastidio dai destinatari. L'appello comparso a tutta pagina sul Popolo d’Italia: «Popolo italiano, corri alle armi» rimase inascoltato. La corsa fu, caso mai, alla esenzione o all'imboscamento in servizi ausiliari. Quelli che i distretti avviarono ai reggimenti erano soldati già stanchi prima di combattere, e smaniosi soltanto di essere rimandati a casa da una pace che tutti ritenevano imminente.


Ma sotto questa reazione qualunquistica, che era già una forma di protesta contro il Regime, covavano altre e più profonde angosce. C'era anzitutto, molto diffuso, un senso di vergogna per la «pugnalata alle spalle» della Francia abbattuta. L'odio che la propaganda fascista aveva alimentato contro di essa cadde di colpo, dimostrando quanto fosse effimero e artificiale. La notizia che le armate tedesche marciavano su Parigi provocò più sgomento che entusiasmo. E quel po’ di razzismo che il Regime era riuscito a suscitare negl'italiani si tradusse in un sentimento di solidarietà per la «sorella latina». Anche l'Inghilterra riguadagnò di colpo le simpatie perdute al tempo delle sanzioni. Nessuno pensava ch'essa potesse reggere da sola. Ma quando fu chiaro che rifiutava la resa, l'ammirazione fu grande, e le radio cominciarono a cercare, la sera, i segnali della BBC, che aveva già iniziato le sue trasmissioni in italiano per la voce del colonnello Stevens e di Candidus, subito diventati popolarissimi in tutta la penisola.


Erano le manifestazioni emotive del divorzio fra Regime e Paese che, già in atto da almeno tre anni, riceveva dalla guerra una spinta decisiva, ma creava anche, almeno in molti italiani, un caso di coscienza sul quale bisogna intenderci al di fuori delle versioni di comodo che ne sono state date a posteriori.

La mia generazione, quella che aveva militato nei «Balilla» degli anni Venti, era molto divisa. La massa si era adagiata nel Regime, cercandovi soltanto dei benefici di « posto» e di carriera in cambio di quei tributi formali (tessera, divisa, adunate, riti commemorativi) che il Regime esigeva e di cui si contentava. Delle minoranze pensanti - le uniche che facevano opinione perché ne avevano una o cercavano di formarsela -, alcuni, ma pochissimi, avevano già saltato il fosso ed erano scomparsi nelle catacombe della cospirazione: erano quelli che, partiti dalle posizioni più radicali del fascismo propugnate da filosofi come Ugo Spirito, erano approdati al comunismo, che infatti era il loro logico sbocco. Furono, in un certo senso, i più fortunati, anche se furono loro a correre i maggiori rischi: lasciato un « servizio », ne trovavano da compiere un altro con la sua bandiera, la sua organizzazione, il suo codice di comportamento.


Noi, che attraverso le delusioni del fascismo avevamo ritrovato le nostre radici liberaldemocratiche, eravamo al buio e combattuti da opposti richiami. Fin allora non avevamo mai pensato a una fine traumatica del fascismo, e nemmeno l'auspicavamo. Caduta ormai la speranza di appropriarcelo e di farne una cosa seria, eravamo convinti ch'esso si sarebbe consunto da solo, e comunque non sarebbe sopravvissuto a Mussolini, i cui segni di decadimento ci parevano sempre più evidenti. Contavamo insomma sulla soluzione con cui trent'anni dopo la Spagna avrebbe liquidato il franchismo lasciando che morisse nel suo letto e che la successione venisse raccolta da coloro che, essendoci cresciuti dentro, non potevano farne motivo di divisione, risse e vendette. Quanto pesasse, in questo calcolo, il comodo personale, nemmeno oggi saprei dire. Forse, avevamo assunto quella posizione di attesa anche perché ci esentava da scelte difficili e pericolose. Ma ancora oggi ritengo che fosse la più ragionevole e consona agl'interessi del Paese.


Purtroppo, la guerra la rendeva impossibile. La scelta bisognava farla: o con l'Italia e il fascismo, ormai non più scindibili; o contro il fascismo, ma anche contro l'Italia. Come democratici sia pure di fresca conversione, la lealtà al fascismo ci ripugnava. Ma come ex-balilla ed ex-avanguardisti, ci ripugnava la slealtà all'Italia. Ci furono, nei nostri conciliaboli, discussioni roventi, e anche dilacerazioni e rotture di vecchie amicizie. La logica di chi diceva: «L'unico modo di vincere questa guerra è di perderla perché la vittoria farebbe dell'Italia una colonia della Germania, e della peggior Germania che sia mai esistita» era ineccepibile, ma urtava contro i nostri sentimenti. Per quanto svalutata dall'inflazione che il Regime ne aveva fatto e dalla cattiva retorica di cui l'aveva condita, la parola Patria seguitava ad avere per noi un significato, e desiderarne la disfatta ci ripugnava. Confusamente intuivamo che questa disfatta non sarebbe stata soltanto militare: essa avrebbe travolto anche tutti i valori morali nel cui culto eravamo cresciuti. Forse sarebbe occorso ricominciare daccapo, dalla ricostruzione di una coscienza nazionale, e l'impresa ci sgomentava.


Questo conflitto, oltre a dividere la nostra coscienza, ci disunì anche come generazione, e questo fu il fatto più grave. Fin allora eravamo stati abbastanza concordi nel rifiuto di ogni partecipazione al fascismo in attesa che questo si esaurisse da solo e in modo da affrettarne la fine. Incoraggiato da molti degli stessi gerarchi, e quindi comportando più inconvenienti che veri e propri pericoli, questo atteggiamento di fronda era largamente condiviso e creava fra noi una certa solidarietà. Ma la guerra sprigionava una temperatura, alla quale questo mastice non resse. «Da questo momento - mi disse Berto Ricci, uno dei nostri migliori, la sera del 10 giugno - nessuno speri più nulla da nessuno. Siamo soli, e da solo ognuno deve risolvere il proprio caso.» Lui lo risolse andando volontariamente a morire in Libia. E la sabbia che ricopre i suoi resti ricopre anche quelli d'infiniti altri uomini che posero fine alle loro inquietudini scegliendo la via più diritta, quella del Dovere, senza nemmeno il conforto dell'entusiasmo e della speranza. Di questi uomini – e furono tanti - non rimane nessun ricordo perché la storiografia antifascista è stata nei loro confronti più impietosa della sabbia libica. Ma erano forse, almeno sul piano morale, la nostra élite. E lo dice uno che non vi appartenne.


I più fecero come chi scrive, cioè nulla. Ci lasciammo portare dagli avvenimenti quasi dissolvendoci in essi, e senza contribuirvi né in un senso né nell'altro. Quelli di noi che vennero richiamati alle armi, cioè quasi tutti, non furono soldati traditori, ma nemmeno buoni soldati. All'ingrosso eravamo divisi fra quelli per i quali la paura della vittoria faceva premio su quella della disfatta, e viceversa. Una sola certezza ci accomunava: che, comunque andassero le cose, gli eredi del fascismo non saremmo stati noi. Se vinceva, esso sarebbe caduto in mano ai suoi elementi più brutali e totalitari, scimmie del nazismo; se perdeva, saremmo rimasti sepolti sotto le sue rovine.

In procinto di partire per il fronte francese, andai a trovare un mio vecchio zio, ex-colonnello medico. Era uno degli ultimi reduci di Adua (morì a novantott'anni), che aveva volontariamente lasciato il servizio alla vigilia di diventar generale perché non sopportava le ingerenze politiche in caserma, e col Regime non si era mai riconciliato. Era più ringhioso e pessimista del solito, e per la prima volta gli sentii muover delle critiche anche al Re - contro cui non aveva mai pronunciato parola - perché non aveva saputo opporsi alla «guerra di Mussolini». Ma a questo punto aggiunse picchiando il pugno sul tavolo: «Però ora dovete vincerla, a qualunque costo!». E pressappoco la stessa cosa ripeterono tutti i miei vecchi che andai a salutare. Chi più chi meno erano tutti antifascisti. Ma appartenevano alla generazione della prima guerra mondiale, non avevano dubbi sul dovere di servire la Patria anche se si era messa in camicia nera, e mi parvero migliori di noi che non sapevamo più nemmeno che cosa augurarci.


Di ritorno dalle Alpi savoiarde, dove per pochi giorni si era giuocato alla guerra senza farla, e in attesa di nuova destinazione (finirono poi per mandarmi in Albania), non trovai quasi più nessuno dei vecchi amici. Il richiamo alle armi ci aveva disperso. E quando tornammo a incontrarci, il 25 luglio del '43, stentammo a riconoscerci. Le diverse esperienze avevano maturato in noi convinzioni e atteggiamenti diversi. Alcuni di coloro che il 10 giugno avevano più recisamente avversato l'intervento e predicato il dovere di sabotare la guerra dell'Asse erano ora, in un sussulto di onore nazionale, per la fedeltà al Regime e al suo alleato, e molti di essi li vedemmo poi finire a Salò. Altri, che il 10 giugno si erano pronunciati per la lealtà alla Patria, erano ora per il rovesciamento del fronte, e parecchi di essi si arruolarono nelle formazioni partigiane.

Nemmeno oggi saprei dire chi, fra questi e quelli, era migliore, e chi scelse la strada più giusta. So soltanto che, in mezzo agli uni come in mezzo agli altri, ci furono dei galantuomini e dei profittatori; e che la spaccatura non si ricompose più. La solidarietà che la fronda al fascismo aveva creato tra noi si era fusa al calor bianco della guerra e della disfatta. Questa disunione aprì il varco ai fantasmi dell'antifascismo, che tornavano chi dall'esilio, chi dal confino, carichi di rancori, ben decisi a far valere i loro meriti e titoli di «antemarcia» - esattamente come avevano fatto gli ex-squadristi -, e soprattutto convinti di poter e dovere cancellare il ventennio littorio, con tutto quello che c'era dentro - che poi eravamo noi, e la nostra vita, e le nostre speranze deluse, e i nostri consunti ideali - come un secchio d'immondizie e un errore della storia.


Di tutto questo, il 10 giugno non avevamo una visione precisa; ma il presentimento, sì. Roma, come tutte le altre città italiane, fu al buio, quella sera. Anche noi lo eravamo.

 
 
 

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