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Il dramma della guerra nel racconto di un medico

  • Immagine del redattore: magnarini
    magnarini
  • 4 gen 2018
  • Tempo di lettura: 3 min

Nel libro autobiografico "Centomila gavette di ghiaccio", Giulio Bedeschi descrive la ritirata di Russia. Ma nella prima parte del libro egli racconta la sua esperienza di medico sul fronte greco. E' una parte del libro poco conosciuta, poichè la critica si è sempre concentrata sulle pagine relative alla tragica ritirata.

Riporto qui una di queste pagine passate inosservate alla maggioranza dei lettori: un soldato e un medico, uniti dall'atrocità della guerra. Una pagina che mi commuove e mi emoziona; spero la apprezziate anche voi. (Da non leggere se siete impressionabili: la descrizione del ferito è spietata, priva di censure).


Si fece innanzi, al proprio turno, un soldato dal torace racchiuso in un enorme viluppo di cenci multicolori, dal quale la testa emergeva come da una balla di stracci. Solo il braccio destro era libero. L'insieme suggeriva l'idea d'una statua a metà imballata per il trasporto.

- Dove sei ferito? - chiese il medico, mentre l'infermiere tagliava il viluppo.

- Braccio sinistro.

- Chi ti ha fasciato cosi?

- I portaferiti. Il nostro medico è morto.

- Guarda, hanno adoperato anche una calza.

- Si, c'erano anche delle calze. Dicevano che bisognava tener fissato il braccio al corpo. Per impacchettarmi hanno adoperato tutto quello che c'era nello zaino di due nostri compagni.

- Sono rimasti senza niente?

- Si.

- Generosi.

- Erano morti.

Caduto un ultimo straccio di tela grigioverde, apparve il torso nudo. Qualcosa nel cuore di Serri trasalì nel vedere ciò che la serenità del soldato non aveva fatto supporre. Alcune cordicelle tenevano aderente al torace l'avambraccio sinistro, violaceo sino al polso ed enfiato fino ad essere difforme; la mano invece, cerea, stranamente piccola al confronto della tu­mefazione sovrastante, pareva aggiunta al suo naturale soste­gno per uno scherzo disgustoso. Sopra il gomito il braccio s'espandeva, come se da un orrido stelo si fosse dischiuso un putrido fiore; s'espandeva carnoso ancora e con qualche ri­membranza d'umano, ma più simile ormai a un velluto getta­to e ricoperto di muffe. Era quasi completamente reciso, il braccio dilacerato; solo qualche lacerto di muscolo e pelle - una fettuccia -lo congiungeva alla spalla: due centimetri di tessuto cutaneo e una cordicella tenevano innaturalmente av­vinto l'arto al corpo. Attorno al moncherino girava un laccio emostatico approfondito in un solco, i tessuti circostanti erano tumefatti e tesi; dal moncherino, come una canna di bambù spezzata, ma bianco, lucido, fuoriusciva l'osso.

Serri guardò quello sfacelo, attento a rilevare dalla devasta­zione le indicazioni per l'intervento. Anche il soldato osser­vava la propria carne. Il medico sentì quello sguardo sul tri­tume sanguinolento e pensò al cuore del soldato, ai suoi occhi che avevano, sotto la crudissima luce, la rivelazione di tanta rovina, definitiva, soggiogatrice di un'intera esistenza. Volle vedere quegli occhi, esprimere in quell'unico modo al soldato una fraternità che soffriva con lui; sollevò lo sguardo dalla ferita al volto del giovane, lo fissò nelle pupille. Erano serene, grandi. Parevano quasi inconsapevoli, tanto lo sguardo era fermo e forte. Ma proprio allora un nulla si mosse in quegli oc­chi fermi, un nulla che accennava a un'angoscia muta, se­polta nell'anima; lo sguardo si addolcì, infantile ora, di persona che supplica o teme; qualcosa esitò, palpitò, perse luce nel nero delle pupille; e subito fu chiara, da quei trapassi, la nota finale e dominante: un'umiltà che si discopriva a se stessa e inginocchiava la forza, ogni forza, al rivelarsi d'una inferiorità da allora in poi perenne. Quel palpito era accorato e struggente come ogni debolezza che langue sino a morire, come il battito ultimo di un'ala un tempo possente. E già gli occhi del soldato imploravano, smarriti alla vista della carne percossa: un tenebrore nuovo si distendeva su un'intera vita, un legame d'impotenza s'attorceva nelle membra a vincolarle per sempre; l'uomo s'irrigidì nello sguardo, nel torace, nei muscoli, come a resistere ancora per istinto a una spinta verso l'abisso nel quale sapeva ormai di dover fatalmente cadere; infine, a palpebre abbassate, disse in un soffio le prime parole umili della sua rinuncia:

- Dottore,.. Si può sperare...?

Serri portò una mano al braccio incolume, glielo strinse come altre volte suo padre aveva fatto quando voleva infon­dergli forza o fargli intendere un consenso profondo; sorrise al mutilato diritto, aperto, fratello; strinse ancor più forte il braccio, sentì fra le dita il bicipite rispondere con un guizzo; il soldato si rinfrancò, respirò profondamente, si raddrizzò sul solido tronco, rispose al sorriso con un ampio sorriso.

- Ho ancora quest'altro - disse. - È il destro, per fortuna.


 
 
 

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