8 settembre, una ferita ancora aperta
- magnarini
- 27 mar 2018
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Nonostante sporadici tentativi di presentare il voltafaccia dell'8 settembre come un riscatto della Nazione contro l'oppressore, l'8 settembre resta una pagina vergognosa della storia d'Italia. Un governo e una monarchia inetta cercarono di salvare se stessi con il solito voltafaccia a favore del potente di turno. Riporto qui due scritti su questo argomento. Spero che questi scritti non suscitino polemiche. Non è mia intenzione.

Il giorno della vergogna
(Tratto da La nostra guerra di Arrigo Petacco)
L’8 settembre 1943 l’Italia toccò il livello infimo nella sua storia unitaria. Confrontarlo con altri momenti critici vissuti dalla nostra patria dal 1861 a oggi (e Dio sa se ve ne furono!) è onestamente impossibile. Quel giorno, caso unico nella storia, l'Italia capitolò due volte. La prima volta si arrese in teoria agli Alleati; la seconda si arrese sul serio ai tedeschi. Quel giorno, insomma, giunsero al pettine tutte le nostre vergogne: una classe dirigente imbelle, pusillanime e furbastra cercò di uscire da una guerra ormai perduta tradendo amici e nemici e badando esclusivamente alla propria incolumità. Neanche gli sforzi più volenterosi ci consentono infatti di intravedere un timido raggio di gloria capace di rompere, sia pure per un breve istante, la cupa tenebra che avvolse in quei giorni i palazzi del potere.
Era praticamente dal 25 luglio che il governo Badoglio portava avanti in maniera confusa le trattative per l'armistizio. Tale compito era stato affidato al generale Giuseppe Castellano il quale aveva preso contatto con gli Alleati prima a Lisbona e poi in Sicilia. Ma, all'insaputa di Castellano, altri due generali, prima Zanussi e poi Rossi, si erano presentati al comando alleato vantando lo stesso incarico. Ne era seguita una situazione tragicomica. Da un lato, i nostri generali litigavano fra loro rievocando antiche beghe di caserma e contendendosi il diritto di trattare. Dall'altro, gli Alleati, sempre più diffidenti nei nostri confronti, si domandavano perplessi e irritati cosa mai avessero in mente gli italiani. Ai loro occhi, infatti, il comportamento dei nostri rappresentanti appariva sospetto e sconcertante. Erano venuti a chiedere la resa senza condizioni e ora invece cercavano di porle. Esitavano a firmare la capitolazione ma, nello stesso tempo, pretendevano di conoscere nei dettagli i piani segreti degli ex nemici. Erano i rappresentanti di un esercito sconfitto su tutta la linea e volevano addirittura dare consigli a Eisenhower. Infatti, quando gli italiani furono informati che al momento dell'armistizio gli Alleati progettavano uno sbarco a sud di Roma, Badoglio, con singolare improntitudine, suggerì che lo sbarco avvenisse nel Nord e precisamente nei pressi di La Spezia. Oltre che dell'impudenza, tale richiesta fornisce la misura delle capacità strategiche del maresciallo italiano. Evidentemente, egli ignorava che un'operazione di sbarco non si può pianificare nel giro di due o tre giorni (i preparativi di Avalanche, lo sbarco di Salerno, erano iniziati nel mese di giugno). Per giunta, neppure si rendeva conto che uno sbarco a La Spezia era impossibile perché sarebbe venuta a mancare l'indispensabile copertura aerea a causa dell'enorme distanza dalle basi d'Algeria.
Insomma, per giorni e giorni, i comandanti alleati dovettero assistere all'indecoroso balletto dei nostri generali e ascoltare le loro assurdità. Fino a quando, perduta la pazienza, Eisenhower e Alexander misero i rappresentanti italiani di fronte alle loro responsabilità, minacciarono di rimandarli a casa e di denunciare ogni cosa all'opinione pubblica mondiale. Ciò bastò ad ammansirli e, finalmente, il 3 settembre Giuseppe Castellano, il più serio della compagnia, fu autorizzato a firmare l'armistizio a Cassibile, in Sicilia, fra i lampi di magnesio e il ronzio delle macchine da presa.

La resa dei conti
(Tratto da Diario della Seconda Guerra Mondiale, Ed. De Agostini)
L'annuncio dell'armistizio e le vicende consumatesi nelle ore immediatamente successive inaugurarono in Italia il tempo dell'odio. Un sentimento diverso da quello che pure era “naturalmente” germinato nei quattro anni appena trascorsi, come in occasione di ogni guerra, nei confronti del “nemico”. Un nemico che andava sì combattuto, ma verso il quale si poteva nel contempo provare rispetto o pietà. L'8 settembre, invece, infranse legami, fedeltà, convinzioni profonde in modo improvviso e violento; produsse così un odio incontenibile, viscerale, ma che a ben vedere non era nuovo: troppo ben definito nei suoi contenuti, nella rappresentazione del nemico come irriducibilmente, totalmente “altro”.
In quell'odio venne alla luce qualcosa maturata e presente da tempo, ma sin lì rimossa, per obbligo, scelta, opportunità: la forzata convivenza con qualcuno intimamente sentito come straniero, diverso. Inferiore, o comunque peggiore. Pericoloso o fastidioso, ad ogni modo marginale, da eliminare o eliminabile. Il fenomeno interessò innanzi tutto i rapporti tra ex alleati: il disprezzo degli occupanti nazisti verso gli italiani - ancora una volta traditori - non nacque certo in quei giorni; segni inequivocabili si erano già avuti nel corso delle operazioni in Grecia, Russia, Nord Africa. Ora ebbe però libero sfogo, e si espresse nella ferocia del trattamento riservato ai soldati e ufficiali italiani fatti prigionieri (emblematico lo scempio di Cefalonia), e ancor più nelle rappresaglie contro i partigiani e la popolazione civile, con l'odiosa regola dell’uno contro dieci (dieci esecuzioni per ogni soldato tedesco vittima di un attentato) presto tristemente famosa.
Ma ancora peggio, l'odio parve filtrato, potenziato, invelenito nei rapporti tra italiani, mesta conferma delle particolari dinamiche di ferocia mosse dalle guerre civili. Si moltiplicarono gli episodi denuncianti una precisa, per quanto difficilmente definibile, volontà di andare oltre l'uccisione dell'avversario rimanendo entro una logica - sia pure estrema - di “difesa”; una sistematica ricerca della distruzione, dell'annientamento totale della propria vittima, di una sua cancellazione non solo fisica, ma totale, che richiamava la necessità dell'efferatezza simbolica - dalla esemplarità dell'esecuzione allo scempio esibito del cadavere.
Ecco allora la sequela degli impiccati agli alberi o ai pali con cartelli irridenti o ammonitori al collo; dei cadaveri insepolti o mutilati; delle decimazioni dopo rastrellamenti casuali, senza risparmiare vecchi, donne, bambini. Odio senza quartiere, a riaffermare la radicalità della scelta, senza possibilità di mediazione né di ritorno - con me o contro; di qua o di là.
Odio, da via Rasella alle fosse Ardeatine, dai fratelli Cervi a piazza Loreto. Ma ancora non basta. Come in un susseguirsi di gironi infernali, c'è da ricordare la violenza omicida e cieca che ebbe protagonisti quanti, pure, militavano “dalla stessa parte”: le storie ambigue e a lungo taciute degli “sgarbi” tra formazioni partigiane di diverso colore, sino ai veri e propri combattimenti aperti, o alle esecuzioni. E ancora. Nel progressivo smarrimento di ogni limite riconosciuto, troppo allettante sembrò a molti l'occasione per celebrare l'ora della resa dei conti: e la guerra senza quartiere divenne così il teatro di vendette private, di condanne personalmente comminate ed eseguite ai danni di ebrei, preti, rossi, neri, padroni, e giù giù, nella palude oscura dei risentimenti personali camuffati con motivazioni ideologiche. L'8 settembre inaugurò un tempo difficile da ricordare.
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